Cerca nel blog

lunedì 23 agosto 2021

C'ERA UNA CASETTA PICCOLA COSI'...

Avevo 6 anni ed ero in prima elementare, un giorno la maestra ci fece disegnare una casa sul quaderno di italiano. Non sono mai stata un asso nel disegno ma quella casa non mi era venuta tanto male, era una casa di due piani, sospesa nel nulla, con una finestra per piano e la porta al piano terra, un camino sul tetto. Per colorare avevo usato i pennarelli un po' faticosi da usare a 6 anni ma avevano un colore deciso e mi piacevano. Colorai il tetto di giallo e la porta di marrone, per il piano terra usai un rosa acceso e per il secondo un azzurro intenso quasi turchese. Mi piaceva tanto quella casa, mi sembrava di averla disegnata bene. La maestra poi controllò i quaderni per dare il voto, mi mise un 'benino'e e mi rimandò al posto esclamando a voce alta:"non esistono le case dipinte di rosa e azzurro!" Ci rimasi male, tornai al mio banco mortificata e un po' in imbarazzo davanti ai compagni. Cinquant'anni per avere la conferma del contrario, chissà cosa avrebbe detto la maestra di questi tempi se fosse stata ancora qui....

ERA L'ANNO 1970

Avevo 6 anni, ed ero in prima elementare, era il 1970. Era cambiata la decina dell'anno nella data, eravamo stati sulla Luna, era cambiata la moda, c'erano i pantaloni a zampa d'elefante, le donne potevano votare ma la mia classe era ancora divisa in due: da una parte i figli degli operai e dall'altra quelli degli impiegati, del farmacista e del dottore. A me non è mai pesato stare dalla parte degli operai,anche perché ho scoperto di questa divisione quando ormai ero adulta. Io stavo bene in mezzo ai figli degli operai, il mio papà era un operaio e non mi sono mai vergognata del suo lavoro. Eravamo disposti in file di banchi singoli, davanti avevo Maria Carmela, la figlia del pescivendolo e dietro c'era Michele, il figlio dell'ortolano. Mentre Maria Carmela era una bambina sempre perfettamente in ordine e pulita, aveva sempre i capelli pettinati con due trecce e il grembiule bianco sempre pulito e stirato, Michele invece era un bambino un po' lasciato a sé stesso, pur indossando il grembiule nero si vedeva che non era pulito, era sempre spettinato e sapeva intensamente di non lavato. Forse erano tanti in famiglia e i genitori non riuscivano a seguirli bene tutti. Mentre Maria Carmela si impegnava sempre nella lezione del giorno scrivendo, leggendo, disegnando, faceva sempre i compiti, a Michele invece non poteva fregare di meno di qualsiasi cosa, appoggiava la testa al banco e si faceva delle sonore dormite. Credo che nemmeno alla maestra importasse molto di Michele, era seduto nell'ultimo banco, ogni tanto passava di lì per cercare di calmarlo perché era un'anima libera, parlava da solo ad alta voce, cantava, aveva un quaderno ma non so cosa ci fosse scritto, ammesso che ci fosse scritto qualcosa, che ogni tanto volava per la classe all'improvviso. Quando gli veniva il momento estroso puntava i piedi sulle zampe dietro della mia sedia e spingeva con tutta la forza che aveva nelle gambe incastrandomi tra lo schienale e il banco fino a farmi mancare l'aria, era un bambino robusto e di forza ne aveva abbastanza. Quando mi aveva pressato per bene rideva come un pazzo, io un po' meno. Mi sono chiesta spesso cosa ne sia stato di lui, magari è diventato ingegnere. Maria Carmela invece era silenziosa, educata,sempre attenta a scrivere ordinatamente a quando capitava di dover cancellare qualcosa faceva sempre il buco nella pagina del quaderno. Avevamo quelle gomme terribili, rigide, da una parte blu che sembrava carta vetrata e dall'altra parte bordeaux un po' più morbida, ma da qualsiasi parte le usavi il buco nella carta era garantito. Non so perché per rimediare al danno cercava di chiudere il buco con la saliva, il motivo per cui cercasse di chiudere il buco lo sapevo, una volta a casa quel buco le sarebbe costato delle botte e Maria Carmela le prendeva con la cinghia dei pantaloni di suo padre, ma non sono mai riuscita a capire perché pensasse che bagnando di saliva il dito il buco si chiudesse. La paura ci ha fatto fare cose strane...ma questa è un'altra storia.

LE MIE PALPITAZIONI

Ero in quinta elementare, avevo dieci anni ed ero rinchiusa in uno scafandro di timidezza esagerato che non mi ha mai abbandonato. Ogni interrogazione era un supplizio, ero a disagio per tutto, ogni volta che sentivo il mio cognome venivo preso dall’angoscia da arrivare al punto di non riuscire a capire più niente, mi si abbassava l’udito, mi si seccava la bocca e diventavo rossa in viso da sembrare infuocata. Quando abbiamo studiato Silvio Pellico e i racconti dallo Spielberg, ogni volta che si parlava di Pietro Maroncelli erano salti sulla sedia, sembrava sempre che chiamassero me e ogni volta non capivo in che punto dell’Universo mi trovassi in quel momento e quando riuscivo a capire che era Maroncelli tirato in causa, era ormai finita la lezione ed io ero sudata marcia. Una mattina stavamo leggendo in classe, a turno si veniva chiamati a sorpresa, per vedere se eravamo attenti e tenevamo il segno. Praticamente una roulette russa, ogni volta che la maestra diceva ‘STOP’ sentivo il tamburo della pistola girare e pregavo che il proiettile non si fosse fermato vicino alla mia tempia. Generalmente ero attenta in classe, seguivo le lezioni e stavo attenta quando si leggeva proprio per la paura di essere chiamata. Quel giorno il tamburo aveva girato male e la canna con il proiettile si era appoggiata alla mia tempia. Appena la maestra pronunciò il mio nome mi si abbassò l’udito, vidi i pallini davanti agli occhi e persi il segno sul libro. Nel tentativo di riprendere il controllo della situazione annaspai nel vuoto e quando mi resi conto di non avere nulla a cui aggrapparmi cercai di buttarla sulla fortuna e iniaziai a leggere una riga a cas sperando fosse quella giusta, ovviamente non lo era e la classe scoppiò in una risata sonora che mi mandò ancora di più in confusione. La maestra cercò di salvarmi da quella disfatta dove Caporetto ne usciva come vittoriosa e mi indicò dove fossimo arrivati a leggere e di proseguire da lì. Cercai di riprendere la calma ma non mi riuscì granché bene, sentivo la mia voce rimbombare nella testa e il cuore battermi nelle tempie, non ricordo una virgola di quello che lessi solo che ad un certo punto c’era l’abbreviazione S.M. davanti al nome di un sovrano che ovviamente io non capii. Non fui intelligente da fermarmi e chiedere alla maestra cosa volesse dire, temevo di fare un’altra pessima figura davanti alla classe, così proseguii a leggere e anziché dire Sua Maestà…lessi Santa Maria! Vennero giù le pareti dell’aula dal fragore delle risate dei compagni, io mi perso completamente nella vergogna e mi trovai catapultata nello Spielberg assieme a Pellico e Maroncelli, almeno lì avrei avuto il cinquanta per cento di probabilità che in una ipotetica chiamata per cognome sarebbe stato Pietro e non io.

L’USCITA DAL MONDO DI FRUTTA CANDITA

Ero in seconda elementare e avevo sette anni quando il mondo mi è crollato addosso per la prima volta. Era da poco che ci eravamo trasferiti da Milano nella città dove vivo tutt’ora, non sono mai stata un campione di socializzazione, la timidezza mi ha soffocato con l’edera di Nilla Pizzi per tutto il periodo delle scuole. Ero riuscita ad avere però un’amichetta, la mia compagna di banco che sicuramente ci si è seduta lei accanto a me, non ricordo di aver avuto mai iniziative così eclatanti e che è stata la mia prima amica del cuore fino all’età di 14 anni, poi le nostre strade di sono divise e ci siamo ritrovato qualche anno fa grazie ad un social. Era una bambina molto attiva, nell’arco degli anni delle elementari faceva sport, un corso di inglese, nei week end invernali andava a sciare con la famiglia a Bobbio, mi ricordo ancora dove. In estate andava al mare e sapeva nuotare, era molto sveglia e sapeva un sacco di cose, da lei scoprii che nelle scarpe delle ballerine classiche c’era il gesso in punta mentre io pensavo che stessero su tutto a forza di piedi, mi disse cosa facevano esattamente marito e moglie da sposati, mentre io pensavo che l’essere sposati si riducesse tutto a dormire nello stesso letto e discutere a tavola all’ora di cena, mi spiegò cosa volesse dire violentare una persona e con una mestria da arciere professionista, tirò giù l’ultima cicogna dal campanile della chiesa del prevosto, spiegandomi come nascevano i bambini. Potrei fermarmi qui ed uscirne come Nino Benvenuti nel 1970 con Carlos Monzon, sconfitto, pesto, barcollante ma in piedi, invece il più bello dei mari non lo avevamo ancora navigato. Una mattina di dicembre, durante una ricreazione, parlavamo del Natale imminente. Ho sempre amato questo periodo dell’anno, ancora ora mi è molto caro, ci sono i sassi, le luci, Babbo Natale….e quella mattina Rossana mi disse che Gesù Bambino che porta i doni non esisteva, che erano mamma e papà che mettevano i regali sotto all’albero mentre i bambini dormivano. Un frontale col tram avrebbe fatto meno male e ovviamente non le credetti, mi si scombussolò l’anima fino all’ora di tornare a casa per chiedere conferma ai miei genitori, ero certa che non mi avessero mentito e che Rossana si fosse presa gioco di me ma ormai avevo mangiato dell’albero della conoscenza e il seme del dubbio si era insinuato nella mia mente. Una volta a casa ne ebbi la conferma dalla mamma e tutto intorno cambiò, la magia svanì lasciando un vuoto dentro e una delusione profonda che a distanza di cinquant’anni riesco ancora a provare ogni volta che penso a quel momento e indossando una foglia di fico mi incamminai verso l’uscita dell’Eden.

MASTRONARDI

Ero in prima elementare, avevo sei anni ed era un giorno in cui facevamo il dettato. La maestra dettava le parole in modo chiaro e lentamente specificando le presenze dei punti e delle virgole. Eravamo tutti impegnati a seguire la voce della maestra e a cercare di capire le sue parole, scrivevamo lenti, calcando con la matita sulla pagina del quaderno a volte rompendo le punte e rallentando la dettatura perché necessitava una pausa per poter temperare la matita. Tante volte i bambini si distraggono, non ascoltno, capiscono male a volte non sentono perché pensano ad altro e in quei dettati ci si trova di tutto. Rileggendone uno qualche giorno fa sono scoppiata a ridere fino alle lacrime per le corbellerie che sono riuscita a scrivere. In classe c’era un compagno che non scriveva mai la lettera maiuscola dopo il punto così la maestra, quella mattina, ebbe l’infelice idea di terminare la dettatura del periodo esclamando ad alta voce: “…punto, a capo, lettera maiuscola, trombone per Mastronardi!!” E la classe scoppiò in una sonora risata con il disagio e l’imbarazzo del povero Mastronardi.