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venerdì 9 settembre 2016

UN LAMA METROPOLITANO

Alla fermata dell'autobus stasera stranamente non c'è il mio e mi tocca aspettare. Siamo in quattro, io, una ragazza con in testa un gatto incazzato al posto dei capelli, una signore che parla al telefono e un ragazzino di circa sedici anni che fuma, ascolta la musica con gli auricolari, cammina nervosamente avanti e indietro sul marciapiede e sputa come un lama. E qui già mi stai messo storto sull'antenna di Rete Capri. Finito di fumare butta il mozzicone facendolo saltare col pollice tipo tabaccone incallito, e al sù e giù nervoso, aggiunge il giro intorno a largo raggio, ovviamemente a me.
Ogni tre passi una sputata, dopo cinque minuti avevo intorno il cerchio della Mediolanum con tutta la famiglia Doris seduta in poltrona a guardare.
Oltre a farmi schifo, trovo  che sputare sia una cosa da zoticoni senza pari.
Il coglionello seguita nell'opera di innaffiatura dell'asfalto e a me sale il conato di vomito, dopo un po' si diletta col lancio a parabola, a fontanella, a intermittenza, a cucchiaio....cerco di non guardare ma i virtuosismi sputazzanti sono accompagnati dal sonoro dello 'sh-cic' della ciccata che tocca terra e il conato mi sale in gola, non ce la faccio più e il pullman non arriva.
Nel frattempo la gente che attende è aumentata ma il lama metropolitano non desiste nella sua opera idraulica.
All' ennesimo ritorno verso di me con la ciccata in canna, gli sbarro il passo e gli dico: "ascolta, vai a sputare da un'altra parte che mi stai facendo venire il vomito, è un quarto d'ora che stai minando qua attorno"
Il beota, per tutta risposta mi guarda, fa spallucce ed emette un grugnito preistorico senza senso, e gurdandomi storto si allontana smettendo di sputare.
Gli si sarà seccata la bocca.

martedì 6 settembre 2016

Il treno

A volte mi capita di andare in stazione e sto ferma sulla banchina immobile a guardare i treni che partono e che arrivano. Lo faccio da quando ero bambina e mi ci portava mio papà a vedere i treni. Immagino i posti da cui vengono e quelli dove vanno, immagino le persone che scendono e salgono che vita hanno. E di colpo dentro sento qualcosa che si stacca, se ne va come risucchiato dalla velocità del treno e mi sento andar via anch io. Resto immobile sul marciapiede, sono li ma non so dove sto andando.

giovedì 1 settembre 2016

IL QUADRILATERO DELLA MODA

Via della Spiga a Milano non è uno stradone grande, ma nemmeno un viottolo di montagna. Non passano le macchine, tanti negozi in questo periodo sono chiusi e ora non c'è nemmeno in giro tanta gente. Poco fa eravamo solo in cinque. Io che camminavo in un senso di marcia e gli altri quattro dal senso opposo. Arrivati tutti e cinque all'altezza dello stesso negozio, uno dei quattro che mi vengono incontro taglia  la strada a quello di fianco che perde l'equilibrio, che per non cadere si appoggia con le mani a quelli davanti che barcolla, si ferma di colpo, regge quello dietro che si ferma e viene tamponato dalla quarta che guardava una vetrina e non si era accorta che gli altri erano fermi. L' urto dell' ultima sposta avanti tutta la carovana di cammelli accatastati che parcheggia tutta addosso a me che lesta come un gatto di marmo rimango immobile in balìa degli elementi. Un impegno magistrale per riuscire ad accartocciarsi a sto modo essendo le uniche cinque persone in mezzo chilometro di spazio vitale. Più che il quadrilatero della moda a me è sembrato il rombododecaedro dei pirla.

L' onestà paga

Stavo tornando a casa in metrò, con la borsa della spesa, il fazzoletto in testa, la sibretta di feltro per non fare le pedicagne e la parannanza legata in vita.
Vado al mezzanino dove c'è il controllore e gli dico che alla mia amica che paga il biglietto regolarmente come me, oggi un controllore ha regalato un bacio Perugina.
Gli ho fatto presente che io ho un abbonamento annuale, area media da 789 euro e non ho mai visto nemmeno una caramella lassativa.
Lui mi guarda, mi sorride e gentilmente mi dice: "Ha un abbonamento costoso, a lei diamo il torrone a Natale"
"Allora è vero, ha ragione la mia amica, pagare il biglietto paga"
Saluto il gentile controllore e mi allontano per raggiungere l' autobus che mi porta a casa.
Faccio qualche passo e mi sento chiamare da lontano, mi giro e vedo due giovanotti vestiti di rosso con una croce sulla schiena che mi dicono: "signora, l'accompagnamo noi a casa, non è prudente girare sola a quest'ora"
È proprio vero, pagare il biglietto paga, e se hai un abbonamento costoso ti chiamano anche il taxi.

Sia-amo i Watussi...si-amo i Watussi...

Sul metrò stasera c'è il ballerino musicante, musica dei Jackson Five a manetta e il ballo di San Vito in corpo. Il casino che riesce a fare questo tale, da solo, è paragonabile alle manifestazioni degli anni settanta per i diritti dei lavoratori. Quando c'è lui non si riesce a sentire nemmeno il rumore dei miei pensieri. Ad un certo punto però sento ha rumore sordo e vibrante di un tubo di ferro che batte contro una massa compatta e mi giro. Mi trovo davanti un ragazzo Watussi di oltre due metri, stampato in un frontale contro il sostegno per i passeggeri attaccato in alto alla carrozza. Si siede ma non fa una piega, penso a che dolore debba aver sentito, il soprassalto dell'ostacolo inaspettato, ma lui non batte ciglio. Il viaggio finisce, arrivati al capolinea ci si prepara a scendere. Il ragazzo si alza e bammm!!!! Un frontone contro il sostegno di prima. E minchia figlio mio, ho capito che a casa tua non c'è il metrò, ma di sto passo a Natale ci arrivi rintronato come Mohamed Alì.

L' ascensore mentale

Al capolinea del metrò dove scendo io ci sono tutte le scale mobili bloccate per manutenzione ormai da due mesi. Sono bloccate tutte insieme perché il premio Nobel per l'ingegneria abita a Sesto San Giovanni e per uscire spesso uso l'ascensore.
Stasera davanti a me c'erano un po' di persone, così mi metto in attesa del mio turno. Intanto salgono quattro persone con trolley, borse, borsone, valigia, valigione, sacco, sacchetto e bottiglione. Si sistemano in modo da starci e stanno lì, fermi.
Non capisco ma aspetto, dopo un po' si chiudono le porte e due minuti dopo si riaprono, dentro ci sono ancora i quattro con  trolley, borse, borsone, valigia, valigione, sacco, sacchetto e bottiglione, che straniti si accorgono di essere ancora al punto di prima. Uno di loro dice "deve esserci qualcosa che impedisce le porte" e partono le grandi manovre per stringersi un po', sembrano uno scassaquindici mentre spostano trolley, borse, borsone, valigia, valigione, sacco, sacchetto e bottiglione. Soddisfatti del lavoro si fermano e guardano la pulsantiera dell'ascensore. Dopo un po' si chiudono le porte e poi si riaprono e i quattro sono ancora lì con trolley, borse, borsone, valigia, valigione, sacco, sacchetto e bottiglione. La signora davanti alza la testa con sguardo attonito e mi guarda in cerca di una risposta e nel frattempo uno di loro scende, pensando che l'ascensore non funzioni, e si avvia verso le scale con la sua parte di bagagli. Io guardo la signora e le dico: "deve schiacciare il bottone con lo 0 sennò non parte, non è automatico". Non è l'ascensore di Star Trek che parte solo col pensiero. La signora schiaccia il pulsante, le porte si chiudono e l'ascensore parte....KIRK A PONTE, FATECI RISALIRE.

giovedì 26 maggio 2016

QUANDO SI SPEZZA UN OSSO


Quando si spezza un osso non si spezza solo un osso, si spezzano tante cose.
Prima, se lo avessi voluto, avrei potuto correre e camminare per tante ore senza problemi, magari con qualche dolore alle caviglie per il sovraccarico, ma non correvo perché avrei affaticato le articolazioni, le mie caviglie e ginocchia si devono portare in giro due locali arredati e già ne risentono camminando, immaginiamoci a correre…
Ora, se lo volessi, potrei correre lo stesso e camminare ancora per ore senza problemi, sempre con qualche dolore alle caviglie per lo stesso motivo di prima, nessuno mi ha detto che non posso più correre ma non lo faccio perché ho paura.
Ora, con l’osso spezzato e riparato, non sono più come l’originale uscito dalla fabbrica, ho una placca di titanio attaccata all’osso che mi ha aiutato ad aggiustarlo ma che ora non serve più a niente, la tengo solo perché non voglio andare di nuovo in sala operatoria e rifare tutto daccapo. La lascio lì dove l’hanno messa, non mi da disturbi, le voglio anche bene e le sono grata di quello che ha fatto, le ho dato un nome, le parlo, l’accarezzo, fa parte di me anche se il suo lavoro è terminato, non la levo perché ho paura.
Prima le radiografie del mio piede davano immagini di una massa compatta, lineare e bella da vedere, ora appare una ferramenta con un pezzo di metallo in verticale e otto viti piantate dentro all’osso, una cosa che a guardarla fa paura ma se guardi bene bene, la frattura non la vedi, è impercettibile, la vedo io perché so dov’è ma se non lo sai non la vedi, vedi solo quello che appare, un traliccio metallico che fa impressione ma non fa male.
Quando si spezza un osso fa male, ho sentito tanto male quando si è spezzato l’osso, quando ho ricominciato a camminarci sopra e fa male ancora ogni tanto ma non sempre.
Quando ho tolto l’immobilizzazione il piede non era più uguale a quello che avevo sempre avuto, era diverso dall'altro che era bello da vedere, era una salsiccia viola, pieno di ematomi perché non si era solo spezzato un osso, si erano anche stirati tutti i legamenti, rotti piccoli vasi sanguigni e si era formato un callo che mi impediva di stendere il piede come avevo sempre fatto, senza pensarci tanto a come funziona un piede.
Passavano i giorni, le settimane ma il piede era sempre uguale, bloccato, si sgonfiava piano piano ma era sempre bloccato, poi da viola è passato a rosso scuro e poi è tornato rosa ma era sempre bloccato, ci camminavo sopra zoppicando, in modo strano, tutta storta per sentire meno male, si è infiammato il ginocchio dell’altra gamba, che per darmi un aiuto si è caricato tutto il peso che non poteva portare l’altra, mi faceva male la schiena, poi una spalla e poi anche l’altra, infine anche il collo, tutto si è adoperato per cercare di farmi andare avanti anche senza che ci pensassi io.
Una mattina come tante mi sono accorta che mentre ero occupata a lamentarmi del mio piede che non sarebbe stato più come prima, il mio piede aveva aumentato la mobilità, il callo che mi avevano detto sarebbe rimasto era sparito, non si estende ancora bene come prima ma non è ancora passato tutto il tempo che deve passare,  non so nemmeno quanto debba essere ma sarà quello che serve.
A volte zoppico ma sento la tua voce che mi dice “non zoppicare” e subito torno a camminare normale, perché non c’è un motivo per zoppicare, il piede non è malato, mi regge benissimo, è solo la paura di sentire male che mi fa camminare così.
Ora mi fa male il ginocchio dell’altra gamba e il piede “rotto” per restituire il favore, si sta caricando tutto il peso per lasciare libero il ginocchio, e non fa male, regge bene, non lo facevo prima perché avevo paura ma soprattutto perché c’era qualcuno che si prestava a reggermi il gioco del “poverina hai rotto un piede, aspetta che ti porto in giro io” fino a che non ce l’ha fatti più nemmeno lui e per forza di cose ho dovuto cambiare registro.
Di questo osso spezzato mi è rimasta la paura addosso, la paura che il piede non mi possa reggere nei momenti in cui attraverso la strada e arrivano le macchine che non intendono fermarsi, che non mi regga quando salgo le scale perché l’ascensore di casa o le scale mobili del metrò non funzionano, la paura che ceda mentre scendo le scale, che mi sono accorta essere tantissime a Milano, sono ovunque tantissime, mi è rimasta la paura dei pavimenti bagnati che mi bloccano e fanno camminare come sulle uova, mi è rimasta la paura di non poter più fare affidamento su di lui ma fino ad ora è il piede che non poteva fare affidamento su di me che non mi fido di lui, perché lui non mi ha mai fatto nessuno scherzo mentre io lo tratto come un menomato.
Di questo osso spezzato mi è rimasta la paura delle scale in discesa, la paura di cadere di nuovo, ogni volta che scendevo le scale, per un bel po' di tempo, rivedevo tutta la scena della mia caduta, il dolore, l’ospedale, la sala operatoria, i punti, il dolore, la convalescenza, la ripresa lenta, il dolore, il rientro alla vita normale che non è stata più come prima, il dolore, la paura, il dolore…
Ma tra una paura e un dolore mi sono accorta che ci sono i corrimano, che prima erano solo decorazioni poste di fianco alle scale, ora sono la mia sicurezza, la mia mano li impugna e io mi fido di lei, non molla, qualsiasi cosa dovesse succedere su quelle scale non cado, sono tranquilla, la mano e il corrimano mi sono vicini e scendere le scale non fa più tanta paura come prima, non penso più tanto spesso che potrei cadere di nuovo e anche quando  capita, passa subito e il dolore è passato con la paura.
Quando si spezza un osso fa male, fa paura e si spezzano tante cose, ma si riaggiustano.
 
 

LE UNDICI


Le undici sono un orario strano, troppo tardi per colazione, troppo presto per il pranzo, lontana l’ora di andare a letto.

Alle undici la mattina volge al termine ma il pomeriggio ancora non si presenta.

Le undici sono un orario congestionato di cose ancora da fare e tante cose già fatte,  l’orario per un caffè e due chiacchiere in attesa di chissà che o solo di qualche minuto di calma, l’orario per un aperitivo, per riempire il tempo, un lasso di tempo in cui si è ancora in tempo per fare qualcosa che doveva essere fatto prima.

Le undici, ancora tantissimo tempo prima di sera, prima di andare a letto e prima che il giorno finisca, un orario che ti da ancora tante possibilità: che tutto accada, di cambiare idea, di una sorpresa, che il cielo cambi, di una decisione, di un ripensamento, di un dispiacere e di un sentimento, di “adesso cambio” e poi non faccio niente, di tempo immobile pesante, di progetti, pensieri, opere e omissioni, dire, fare e baciare e tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Le undici sono i minuti delle ore di mezzo, quelli che sembra non servano a niente e si buttano nelle discariche delle code alle poste, ai banconi dei supermercati, dal tabaccaio, in farmacia e dal fornaio, sono i minuti dell’ultimo minuto e di un attimo.

Alle undici si danno gli appuntamenti dove devi andarci per forza ma non vuoi alzarti presto e quelli a cui tieni tantissimo ma prima hai dei “per forza lo devo fare” che ti devi levare dalle scatole per essere libero.

Le undici sono quell’orario in cui se sei triste il giorno non passa mai e se sei felice pensi che c’è ancora tanto tempo per sentire dentro quella sensazione bella prima di doverla lasciar andare e aspettare che ritorni.

Le undici sono un orario strano, pieno di tante cose, pieno di vuoto e di speranze, pieno di paure e di mancanze.